Plusvalenze

Roberto Beccantini17 marzo 2019

Complimenti al Genoa, innanzitutto. Con Juric, all’andata, fu la prima squadra a bloccare la Juventus di Cristiano. Con Prandelli, al ritorno, è stata la prima a batterla. Non c’era il marziano, e Madama era gonfia e tronfia di gloria: è successo ciò che successe dopo un 3-1 a Siviglia, e sempre a Marassi contro il Grifo. Prandelli ha ricavato ghiotte «plusvalenze» dai cambi, visto che i gol li hanno firmati proprio Sturaro, mister 16 milioni e mezzo, e Pandev. Il primo, magari, con la complicità di un Perin fin lì perfetto.

Non è un dettaglio la sindrome di Mandzukic che spesso prende Allegri, anche perché non è esattamente la sindrome di Stendhal. Chi scrive, stravede per il croato, una colonna fino a Natale. Dopo, non più. Le sue ante potevano far comodo nelle stanze intasate del Cholo, non oggi. C’era Kean, perché non lui? Mi inchino all’altrui scienza e mi tengo la mia coscienza: a Mandzukic, ormai, crede più Allegri che il Var.

Scritto ciò, non resta che prendere atto di un’impresa e di una umanissima flessione dopo un’impresa, anche se da Dybala mi aspettavo di più, e qui il mister c’entra poco (o meno, comunque): c’entra il giovanotto, poche balle. Così come, più in generale, ho visto piedi sbiruli, riflessi lenti, geometrie slabbrate. La squadra di Prandelli ha aspettato la Juventus sulla trequarti per poi pizzicarla in contropiede. Ha tenuto alto il ritmo, ha rischiato poco, non ricordo una parata di Radu. Kouamé è interessante; e quel Romero, un buttafuori che gode nel trasformare l’area in un ring.

Non c’è ferita che non bruci, e questa brucicchia. La fortuna sono i cerotti che Madama può permettersi. La fortuna e i meriti (24 vittorie su 27). Dopodiché, bisogna pure parlare di qualcosa. E allora, in attesa dell’Ajax, sbizzarritevi.

Un fischio di 80 anni

Roberto Beccantini17 marzo 2019

Nel fare gli auguri a Giovanni Trapattoni, che oggi compie 80 anni, si rischia di parlare più di «Non dire gatto se non ce l’hai nel sacco» e di «Strunz», cose così, che non del grande allenatore che è stato. Ha covato e accompagnato generazioni di cronisti, ha vissuto il calcio con la laboriosità ruspante dell’artigiano che, a corte come a bottega, non si è mai creduto unto del Signore, neppure quando avrebbe potuto (alla Juventus, all’Inter, al Bayern, eccetera eccetera).

«Figlio» di Nereo Rocco, mediano elegante, marcò Eusebio e Cruijff e non si è mai vantato di aver annullato Pelé zoppo: dai titoli dei giornali ne avrebbe avuto facoltà. Il suo calcio è stato italianista per convinzione e non per ruffiana convenzione, ma il catenaccio non l’ha inventato lui, e piano con le etichette, visto gli attacchi che schierava: Bettega, Tardelli, Paolo Rossi, Platini, Boniek. Ha frequentato i trionfi e le sconfitte, «questi impostori», come Rudyard Kipling suggeriva al figlio.

Il suo pregio è stato la sincerità; e il suo marchio, un pragmatismo che piaceva a Giampiero Boniperti, il primo a fiutarne la sapienza contadina. Ha vinto in Italia, Germania, Austria e Portogallo. Non ha avuto fortuna con le Nazionali, Leo Longanesi l’avrebbe definito, parafrasando l’Italia democristiana, «metà acqua santa e metà acqua potabile». Ha polverizzato record (con la Juventus, con l’Inter), pensava al bello come a un’opzione e non come a un obbligo, diventò il custode della tradizione e fece in tempo a misurarsi con Arrigo Sacchi, che di quella scuola fu accanito eversore.

Se solo potesse, allenerebbe ancora. I giovani, magari: come sempre aveva sognato di fare, «un giorno». L’ultimo Trap si piace macchietta, cybermister, ma questa è cronaca. La storia è quell’altra; e la colonna sonora, dal trombone della banda del paese a un fischio.

Due scuole

Roberto Beccantini15 marzo 2019

Ma che bella sfida, Ajax-Juventus. Bella, perché l’Ajax di Cruijff chiuse proprio contro la Juventus, a Belgrado, la sua rivoluzione e la Juventus, proprio contro gli eredi di quella ribellione, alzò, a Roma, la Champions. Era il 1996. La storia tallona la cronaca, e la cronaca bracca la storia. Se l’avventura con l’Atletico ha incarnato il sabba di un calcio tutto imboscate e guerriglia, Amsterdam e lo Stadium celebreranno il confronto tra due scuole. L’Ajax del calcio totale, che rovesciò i ruoli fissi sotto la spinta libertaria dei Provo; la Juventus del calcio parziale, sospesa fra il richiamo della fabbrica e le sirene del glamour.

Lo stile Ajax e lo stiletto Juve. Ten Hag e Allegri, incantesimo e «incartesimo». I ragazzi di strada e la Vecchia Signora. Con Cristiano Ronaldo a soffiarci sopra, Eolo mai sazio. L’Ajax odierno non schiuma più come l’Ajax di una volta, ma gioca a ritmi folli, molto rischia per molto conquistare. Non gestisce: stupisce. Il primo tempo con il quale, in casa, stremò il Real resta, al di là del più iniquo degli eccessi di zero, un messaggio agli avversari, un invito ai palati.

De Ligt, De Jong, Ziyech, Tadic (soprattutto), Neres: c’è l’orchestra e c’è la musica. Servirà la Juventus di martedì scorso, non quella pavida di Madrid. Una Juventus che sappia imporre la propria esperienza e il proprio «casino organizzato». Gli opliti del Cholo ne subirono le spallate, i lancieri – comunque vada – costringeranno Madama a sbalzi assai più indiavolati. Riesco a immaginare l’Ajax di aprile, non ancora la Juventus: a meno che la rimonta non l’abbia liberata.

Per concludere, ecco il mio borsino: Tottenham 40% Manchester City 60%; Ajax 49% Juventus 51%; Liverpool 70% Porto 30%; Barcellona 55% Manchester United 45%.